martedì, maggio 07, 2024

"GLORIA!" CONVERSAZIONE CON MARGHERITA VICARIO

Presentato in anteprima nel concorso ufficiale dell’ultima edizione del Festival del cinema di Berlino, Gloria! segna l’esordio alla regia di Margherita Vicario con un film in costume capace di dialogare con il pubblico e con il nostro tempo. Di “Gloria!” abbiamo parlato con la regista.

Prodotto da Tempesta, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura con il sostegno di Federal Office of Culture, Ticino Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film Commission, “Gloria!” di Margherita Vicario è nelle sale italiane dall’11 Aprile 2024.

Detto che “Gloria!” parla di musica e che di essa si serve per raccontare il mondo in cui si svolge la storia, volevo soffermarmi sulle sequenze iniziali perché lì il film costruisce una sorta di genealogia musicale in cui è possibile ricostruire le fasi in cui il caos sonoro diventa spartito musicale. Dal canto degli uccellini al battito di mani dei bambini, dalla frenesia delle lavandaie al coro delle orfane dell’istituto religioso, le immagini testimoniano la progressiva trasformazione del rumore in suono fino al ballo che conclude l’introduzione, apoteosi pronta a celebrare la nascita della musica.

Sicuramente è così, nel senso che volevo aprire il film con i suoni dell’ambiente, con i bambini che giocano, gli uccellini che cantano, le ragazze impegnate nelle faccende quotidiane. Nel piccolo prologo che precede la sequenza iniziale ci sono molti elementi umani caratterizzati da una componente irrazionale come lo è il vagito della bambina interpretata da mia nipote che all’epoca aveva un anno e mezzo. Come hai detto, da lì in poi, a cominciare da quell’insieme di suoni presenti nell’aia, la musica prende piede grazie all’immaginazione di Teresa che la fa diventare una vera e propria sinfonia.

La sequenza che apre il film ci dice anche un’altra cosa e cioè che la musica unisce anziché dividere. L’armonia che lega le ballerine e le persone presenti in scena rilancia questa propensione, ricordandoci che il risultato finale è frutto di una condivisione di intenti, di uno sforzo collettivo. Come in effetti succede nell’atto conclusivo della storia.

Sono d’accordo perché la musica è conseguenza della giustapposizione di diversi elementi. Nel film c’è una componente autobiografica perché, come Teresa, io sono un autodidatta e dunque non so leggere la musica. Come lei anche io nel momento in cui ho messo le mani sul pianoforte ho avuto il desiderio di sentire suonare le note che avevo in testa da un’orchestra. E questo, come dici tu, si può fare solo producendosi in una performance di più elementi, dunque con una propensione collettiva dell’arte.

A sottolineare come l’istituto religioso in cui vivono le ragazze sia un mondo chiuso e isolato, spazio del limite e della costrizione, ci pensa il movimento iniziale, dall’esterno verso l’interno, con la lunga carrellata laterale che, nella sua durata, sembra voler dare conto, in senso fisico, dell’isolamento delle protagoniste. Al contrario del finale, quando l’apertura verso l’esterno, testimoniata dallo scenario bucolico in cui ritroviamo le ragazze, diventa il segno di una libertà che è anche creativa oltre che esistenziale.

Sì, questo doppio movimento faceva parte dell’evoluzione del film e in particolare di quella di Teresa e di Perlina, il suo antagonista. Tutto parte dal mondo interiore della ragazza che un poco alla volta si manifesta diventando materiale. Teresa mantiene intatta la dimensione creativa dandogli seguito in maniera concreta, anche se, pensandoci bene, la musica è la cosa più immateriale che esista. Però, pur non vedendosi è in grado di fare grandi cose.

Nella sequenza iniziale la ripresa a piombo sulle ragazze danzanti traduce l’armonia generale in una condivisione di spazio. Da lì in poi è come se tutto il film spingesse per trasformare quell’immagine ideale in un fatto concreto, eliminando un poco alla volta la separazione esistente anche all’interno dell’istituto tra i diversi occupanti, e, per esempio, tra Teresa e le altre ragazze; come poi accade nella sequenza del concerto finale in cui anche i bambini, e persino gli inservienti, sono chiamati con la presenza in chiesa a testimoniare la caduta delle barriere sociali.

Assolutamente. La scena finale ci dice che anche chi non è musicista, attraverso la musica, riesce a godere della libertà che le ragazze si conquistano attraverso il loro concerto. Poi, come succede nella vita, anche nel film vediamo che non tutti capiscono cosa sta succedendo. Tra le persone presenti nella chiesa c’è anche chi non si lascia andare, rimanendo estraneo al grido di libertà che emerge dall’eccezionalità dell’avvenimento. “Gloria!” è un film molto istintivo e la sequenza conclusiva ne è una sorta di manifesto.

Prendo spunto da Martin Scorsese quando parlava del regista intrattenitore, capace di convogliare nei generi i codici del racconto. Così fai tu in Gloria! trasfigurando la figura della donna contemporanea all’interno di una favola che riprende Cenerentola ma senza principe azzurro poiché oggi le ragazze si salvano da sole.

Nello scrivere il film con Anita Rivaroli è stata una scelta deliberata quella di rifarsi a dei topoi. Io sono una grande amante dei film musicali, e ancora di più dei musical veri e propri che si basano più sul come che sul cosa. Una parte di me aspirava a realizzare un film pop, quindi con una struttura intuibile in cui ci fosse un cattivo tout court e un gruppo di ragazze come succede nei teen movie. L’idea era quella di renderlo volutamente archetipico per poi delegare alla parte musicale la componente più fantastica e irrazionale.

In realtà “Gloria!” va oltre il dibattito contemporaneo sul conflitto uomo-donna; basti pensare che uno dei personaggi più crudeli è la governate delle ragazze e che gli uomini sono presenti anche in senso positivo. In realtà il film parla della lotta contro il potere che allora, come oggi, era soprattutto maschile.

Il film ha diverse sfumature. C’è chi può coglierne l’aspetto femminista, che qui è molto dolce e non rabbioso, oppure il tema dell’amicizia e ancora il ruolo della musica. Per altri può essere un film su un’ossessione. Poi è ovvio che, essendo una fiaba, ci sia bisogno di un cattivo di cui ho scritto sulla base di una lunga ricerca filologica che non si riduce al concetto di patriarcato, ma che scaturisce da come all’epoca della storia fosse vietato alle donne di esibirsi fuori dalla chiesa. Visto con gli occhi di oggi mi sembra una cosa molto violenta mentre magari in quei tempi lo era meno.

Paolo Rossi nel ruolo di Perlina, il cattivo del film, si produce in una inedita performance tragica, capace di cogliere il tratto dominante del suo personaggio, quello di essere anche lui vittima degli eventi, travolto com’è da responsabilità che neanche vorrebbe e tutto sommato capace anche di empatia, come succede nei confronti del ragazzo interpretato da Vincenzo Crea.

Credo che Paolo Rossi al cinema non abbia mai fatto un personaggio del genere e lui si è calato nella parte in maniera eccezionale. Sono d’accordo sul fatto che sia anch’egli una vittima; soprattutto della frustrazione creativa che lo fa essere sprezzante e invidioso del talento delle ragazze. Mentre loro sono giovani e vitali lui è arrivato a un punto morto. Il suo atteggiamento è anche il frutto di una dose di misoginia presente nel clero di quei tempi. Con Cristiano ha una relazione tossica alimentata dal senso di colpa che nutre nei suoi confronti perché, in qualche modo, ha contribuito alla sua condizione di eunuco in un’epoca in cui le donne iniziavano a soppiantare i castrati come voci soliste.

Considerando il contesto religioso ho trovato molto azzeccato il fatto di ambientare la rivelazione del talento di Teresa nel seminterrato dell’edificio, e cioè all’interno di un luogo sporco e dimenticato. Come Gesù salvatore del mondo nasce in una stalla così la musica di Teresa, chiamata a liberare le ragazze, si manifesta nel luogo più umile possibile.

Il magazzino ha anche un’altra valenza, quella di rappresentare tutto quello che appartiene al mondo notturno, quindi anche a quello dei sogni e dell’irrazionale in cui il nostro cervello continua a lavorare anche mentre dormiamo. Una dimensione, quella notturna, che, dal punto di vista iconografico, mi ricordava le riunioni carbonare e rivoluzionarie, con in più una componente di libertà capace di esaltare le qualità creative.

La messinscena sintetizza due spinte ben precise. Da una parte la plasticità del riferimento pittorico, dall’altra un realismo che emerge dalla presenza di dettagli che fanno la differenza, come, per esempio, il dettaglio sul pianoforte attraversato dalle mani di Teresa le cui unghie, come vuole il suo lavoro di inserviente, non sono perfettamente pulite, e ancora, i primi piani che non nascondono i brufolini sotto pelle, tipiche delle adolescenti.

Con il direttore della fotografia Gianluca Palma e con gli altri comparti del film condividevamo l’idea di creare un microcosmo del tutto inventato senza che questo togliesse forza alla componente realistica. Se l’istituto Sant’Ignazio è ispirato a congregazioni realmente esistite, noi lo abbiamo fatto a nostro piacimento ma comunque rispondente il più possibile al vero. Anche per quanto riguarda i costumi non volevo che la luce vi rimbalzasse sopra, ma che li attraversasse. Volevo creare un lungometraggio capace di portare lo spettatore all’interno della fiaba facendogli dimenticare che sta vedendo una storia in costume. Le unghie sporche e i volti senza trucco facevano parte di quel realismo che doveva entrare in collisione con la parte più favolistica alimentata dalla presenza della musica. Le basi pittoriche, invece, erano quasi ovvie da interpellare perché chiunque pensa al Settecento ha in mente certi quadri.

Molte scene sono girate a lume di candela in una maniera che a me ha ricordato Barry Lindon.

Il direttore della fotografia si è fatto costruire candele con il doppio stoppino in modo che la fiamma venisse molto più alta per poter assomigliare ai dipinti fiamminghi.

Ispirate dai venti della rivoluzione francese le protagoniste si danno da fare per organizzarne una all’interno dell’Istituto. Gloria! la mette in scena sia dal punto di vista visivo che musicale, mescolando suoni e musicalità di diverse epoche per terminare nella sequenza del concerto con una sorta di gospel; e ancora con un montaggio frammentato volto a interrompere la continuità del flusso delle immagini. Come una rivoluzione “Gloria!” prova a rompere le regole formali.

Sì, alla fine c’è una specie di coro pagano. Comunque hai ragione sul fatto che le scelte musicali non sono lineari. Credo che la forma sia sostanza e questo ha influito sulla forma del film. Mi accade anche quando scrivo le mie canzoni. Se la storia doveva parlare di una rivoluzione e dunque di una ribellione, montaggio e musiche dovevano avere una natura istintiva, a volte anche sgangherata, ma comunque necessaria a raccontare lo stato d’animo che ispira le azioni delle ragazze. Come sappiamo, la rivoluzione non ha mantenuto ciò che aveva promesso per cui le ultime sequenze superano i fatti della storia per sconfinare nella favola. Anche perché poi questi afflati di cambiamento e di rivoluzione sono abbastanza naufragati.

A parte Paolo Rossi di cui abbiamo già detto, una delle qualità del film è la proposta di una serie di giovani attrici che portano nel film bravura e freschezza. Penso in primis a Galatea Belluggi, a Carlotta Gamba, ma anche alle loro colleghe.

Il casting è stato lungo, ma importante perché mi ha fatto toccare con mano come gli attori siano gli unici da cui dipende la verità delle emozioni presenti nel film. Come regista devi solo fare in modo di metterli nelle migliori condizioni per esprimersi, poi ti siedi davanti al monitor e tifi per loro. Così è successo nell’assolo di Carlotta nella sequenza dove a un certo punto la vediamo piangere in primo piano. Abbiamo parlato a lungo prima di girare, ma poi il risultato è dipeso solo da lei. Galatèa Bellugi, Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dall’asta, e Veronica Lucchesi che peraltro è una cantautrice pazzesca, hanno condiviso e amato il progetto da subito, capendo che, se avessero fatto squadra e diventate amiche, avrebbero contribuito alla riuscita del film considerando che nella finzione loro sono sorelle.

Parliamo del tuo cinema di riferimento.

Cinematograficamente sono cresciuta con dei punti fermi come “Jesus Christ super Star” e “The Commitments” di Alan Parker. “La guerra è dichiarata” di Valerie Donzelli del 2011 è un film meraviglioso che mi ha colpito anche per lo straordinario uso della musica. Ammiro e amo i film di Alice Rohrwacher, anch’essa prodotta da Tempesta. Lei riesce sempre a creare dei mondi in cui è preponderante il lato poetico, un fattore che per me è decisivo. Mi piace il cinema di Nadine Labaki e quello di Valeria Bruni Tedeschi e, più in generale, lo sguardo delle nuove registe.


Carlo Cerofolini

(articolo pubblicato su taxidrivers.it)

venerdì, maggio 03, 2024

THE FALL GUY

The Fall Guy

di David Leitch

con Ryan Gosling, Emily Blunt, Aaron Taylor-Johnson

USA, 2024

genere: azione, drammatico, commedia, thriller

durata: 126’

Un’ode al mestiere, sempre in ombra, degli stunt man. Come un regalo e una celebrazione per un lavoro che, pur rimanendo nascosto, è essenziale e fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale. Quello che il regista (e non a caso ex stunt man), David Leitch racconta in “The Fall Guy” è proprio questo: la potenza e l’importanza, spesso dimenticata o, peggio ancora, data per scontata dal sistema. Quello stesso sistema più volte criticato nel corso della narrazione, con ammonimenti e richiami a mancati riconoscimenti a figure che, invece, si equivalgono a quelle che tutti vedono sullo schermo. Sulla scia del successo di “Bullet Train”, Leitch (ri)mette in scena un mistero da risolvere attraverso un personaggio che, solo all’apparenza, è goffo e “intruso”.

Ryan Gosling è Colt Seavers, stuntman hollywoodiano e controfigura della star Tom Ryder (Aaron Taylor-Johnson). In seguito a un grave incidente sul set (del quale lo stesso Colt si incolpa), lo stuntman abbandona il suo mestiere, la sua carriera e la sua fidanzata Jody Moreno, operatrice della macchina da presa interpretata da Emily Blunt. 18 mesi dopo, però, si trova “costretto” a tornare, cercando di riprendersi il lavoro e fidanzata, tenendosi stretto una vita messa costantemente in pericolo da una serie di situazioni.

Nato come adattamento cinematografico della serie televisiva “Professione pericolo”, “The Fall Guy”, così come il suo protagonista, casca sempre in piedi. Muovendosi tra il film d’azione e la screwball comedy, il film di Leitch tocca le giuste corde dello spettatore, talvolta giocandoci e prendendolo (e prendendosi) in giro quando necessario.

Le numerose citazioni delle quali il film è impregnato dall’inizio alla fine contribuiscono a renderlo non soltanto un film d’azione con adrenalina e tensione come unici elementi ai quali appoggiarsi, ma lo fanno virare, almeno in determinati frangenti, verso quel cinema più autoriale non per forza impegnato. E così il mettere alla prova lo stesso Colt con le numerose citazioni che vanno da “Rocky” a “Fast and Furious” è in realtà un modo per giocare con lo spettatore che spazia tra i tanti titoli (quasi tutti “vincolati”, non a caso, alla figura dello stuntman). Lo stesso Tom Ryder è un chiaro riferimento al quasi omonimo videogioco Tomb Raider, che ha come elemento centrale continua avventura e adrenalina.

Ma alle citazioni, più o meno evidenti, si sommano anche scelte registiche e stilistiche degne di nota, scelte che non fanno di “The Fall Guy” il film impegnato e impegnativo dei grandi autori, ma indubbiamente lo rendono appetibile per i gusti e gli standard del pubblico.

Sfruttando la “faida Barbenheimer” Leitch sceglie come volti protagonisti del suo film Gosling e Blunt, entrambi personaggi chiave rispettivamente di “Barbie” e “Oppenheimer” e li mette insieme fin dall’inizio, giocando su questa chimica che si crea anche sul set “fasullo”. Sfruttando la loro notorietà e il loro apprezzamento con il pubblico utilizza la loro immagine a 360°, anche per inserire cinema nel cinema: dal lungo piano sequenza che inquadra e circoscrive Jody nel momento in cui viene presentata come regista in modo da farci comprendere che tutto ruota e ruoterà intorno a lei perché è lei che ha le redini del gioco, alla scansione del volto di Colt necessario per creare una “sostituzione”, tra CGI, deepfake e altre innovazioni tecnologiche.

Il cinema si fa strumento per raccontare il cinema stesso e tutto ciò che si nasconde dietro quella macchina da presa che mostra al pubblico solo il prodotto finale. Dalle citazioni alle nuove tecnologie, passando per le proiezioni (che spesso si sovrappongono ai personaggi stessi come a ricordare che si tratta di finzione) e anche per le discussioni sulle tecniche da utilizzare.

Quel che è certo è che “The Fall Guy” riesce a centrare in pieno il suo obiettivo: essere un titolo esplosivo! Tra colpi di scena sul set, tensione continua e sane risate c’è anche il tempo di disperarsi insieme a Colt ascoltando Taylor Swift.


Veronica Ranocchi

martedì, aprile 30, 2024

CHALLENGERS

Challengers

di Luca Guadagnino

con Zendaya, Mike Faist, Josh O’Connor

USA, 2024

genere: drammatico, sportivo

durata: 131’

Finalmente il tanto atteso titolo che avrebbe dovuto aprire l’edizione 2023 della Mostra del cinema di Venezia è nelle sale. Come una sfida continua, il film di Guadagnino, sulla scia del grande successo (e seguito) del tennis, soprattutto nostrano, mette in scena un’interminabile partita, di sport e di vita in un intreccio di relazioni e sentimenti, costantemente in equilibrio precario.

“Challengers” è la sfida non solo del regista italiano Luca Guadagnino che, negli anni, si è ritagliato un posto sempre più americano, giocando (e plasmando) i divi del momento, ma è anche la sfida dei tre protagonisti e del loro complesso rapporto.

Un continuo salto temporale permette al regista di mostrare le dinamiche tra la promessa del tennis Tashi Duncan (una Zendaya per la prima volta protagonista quasi assoluta) e due tennisti che se la contendono, Art Donaldson (Mike Faist) e Patrick Zweig (un sempre più lanciato Josh O’Connor). Prima lei è una campionessa destinata a grande successo, poi, a causa di un infortunio, diventa allenatrice del marito, Art, costretto a disputare un incontro contro l’ex amico (ed ex fidanzato di lei), Patrick.

Se lei può essere considerata ciò che più si avvicina al deus ex machina, in una sorta di ibrido tra allenatrice e arbitro, incarnando il punto di vista e soprattutto il ruolo del regista, gli altri due sono, solo all’apparenza, pedine costrette a muoversi in uno spazio già predisposto, sia esso una pista da ballo o un campo da tennis.

Ad aiutarci in questa comprensione ci pensa la prima emblematica immagine: quella di un campo da tennis, visto dall’alto, diviso a metà, in maniera perpendicolare, dalla rete, a marcare una divisione continua e costante tra le due fazioni del film. Due fazioni che si equivalgono e, talvolta, si sovrappongono in un gioco di intrecci dove a manovrare tutto, nel bene e nel male, c’è solo una persona che contribuisce a rendere nulla qualsiasi presa di posizione a favore di uno piuttosto che dell’altro. Perché non c’è un vincitore né un vinto, in nessun modo e in nessun mondo. C’è solo l’estasi dell’osservare, dell’ammirare, in una maniera il più distaccata possibile, almeno nelle apparenze. Perché nonostante Tashi provi in ogni modo a distaccarsi da ciò che la circonda, dalla partita e da tutto ciò che essa porta con sé, guardandola in maniera contrapposta rispetto a chiunque, quell’eros costante e tangibile in ogni sfaccettatura del menage à trois torna prepotentemente alla ribalta, che sia con un sorriso, con un churro o con gesto inequivocabile della racchetta a marcare un limite invalicabile.

In “Challengers” ogni personaggio è ben delineato e definito all’interno del proprio campo d’azione (di gioco). Tashi è la leader, la macchina da guerra, la sfasciafamiglie, colei che tiene le redini del gioco e che, per prima, ha il coraggio di dare uno sguardo frontale. Ci bastano pochi secondi per inquadrarla all’interno di un perimetro ben preciso, “rotto” soltanto dall’imprevisto, quell’unica variabile non contemplata, ma che la costringerà a vedere il mondo da un’altra prospettiva.

Art è il perdente (o il vincente?) destinato a essere considerato la ruota di scorta, il meno peggio, l’unica alternativa che può essere plasmata in base alla situazione, quello che non ha molta voce in capitolo (e non a caso che inizia a parlare molto più tardi rispetto agli altri), quello che deve perdere per poter tornare a vincere, ma che deve vincere per capire di non dover perdere.

Patrick è il contraltare, la controparte necessaria sia a Tashi che ad Art, colui che è disposto a perdere tutto pur di dimostrare di aver ragione, senza mai arrendersi o chinare il capo, ed è l’unico che riesce a vedere e mostrare, anche in modo provocatorio, oltre le maschere.

Il tennis è una relazione” ci dice Tashi ed è proprio quello su cui ci vuole far riflettere Guadagnino, (di)mostrando come una partita di tennis sia effettivamente la metafora perfetta della vita, di una storia (d’amore), di una relazione che, nonostante un arbitro provi a delineare e arginare per evitare che dirompa, è destinata ad avere la meglio, su tutto e tutti. Pur mitigandola, pur cercando di nasconderla evitando che escano allo scoperto segreti e sotterfugi, quella relazione è come la pallina da tennis: piena di energia e costantemente in movimento. Se scagliata con troppa energia può arrivare a superare i confini di un campo da gioco; se non indirizzata bene può colpire la rete, ma se dosata nel giusto modo può arrivare a colpire l’obiettivo nel miglior modo possibile.

Tashi gioca con il tennis e gioca con i due amici, provocando e provocandoli, come solo una campionessa in cerca di adrenalina riesce a fare; li usa e li plasma a suo piacimento per raggiungere il suo scopo, uno scopo premeditato fin dal primo galeotto incontro, quella prima partita, seppur giocata su una pista da ballo, ma necessaria per studiare gli avversari. Con un chiaro parallelismo all’emblematica scena di “Chiamami col tuo nome” nella quale Elio vede davvero per la prima volta Oliver, allo stesso modo Tashi vede Art e Patrick e comincia a tessere la sua tela.

Una tela che ha bisogno del contributo imprescindibile di una musica che avvolge (e travolge) creando un ulteriore livello di gioco e di sfida. E in questo sono molto efficaci le scelte fatte da Trent Reznor e Atticus Ross che modellano una “melodia” sulla pelle dei tre protagonisti e sui loro movimenti, spesso ricorrenti, ma portatori, ogni volta, di un significato diverso. Musiche che contribuiscono anche a dettare tempi, scandendo non solo il ritmo del gioco, ma anche della relazione, e tempo in generale, spostando il film a un’epoca molto più vicina alla contemporaneità nonostante i continui flashback.

Un’analisi quasi metacinematografica sulle relazioni umane, un confronto continuo che gioca con le inquadrature, spesso di profilo, come in un match da seguire, e che rimbalza, con movimenti a volte inaspettati, da una parte all’altra a dimostrazione che più che cercare un riferimento nei personaggi, è necessario capire dove (e come) cadrà la pallina. Pallina che, di fatto, si nasconde spesso all’occhio dello spettatore, facendolo concentrare su tutto il contesto che ruota attorno.

La relazione tra i tre è il filo conduttore della metafora che attraversa tutto il film, ma anche della partita stessa che i due contendenti devono giocare per aggiudicarsi il trofeo più ambito, la stessa Tashi. Una partita che diventa un ultimo estremo tentativo di acciuffare quel qualcosa che è sempre mancato per arrivare a un vero traguardo. Così uguali eppure così diversi, Art e Patrick si contendono tutto (forse) per l’ultima volta.

“Challengers” è un film, una partita o una relazione? O tutte e tre le cose insieme? I continui primi piani e l’attesa, a volte interminabile, tra uno sguardo e l’altro a sottolineare l’incessante scorrere del tempo della vita e di una partita che, pur giocandosi in due, ha tre sfidanti. O forse anche di più.


Veronica Ranocchi

martedì, aprile 23, 2024

ZAMORA

Zamora

di Neri Marcorè

con Alberto Paradossi, Neri Marcorè, Marta Gastini

Italia, 2023

genere: commedia, sportivo

durata: 100’

Al suo debutto alla regia Neri Marcorè regala al pubblico una storia semplice, divertente, fresca e ben confezionata.

Usando il calcio come metafora, Marcorè ci catapulta negli anni ’60 in una piccola fabbrica di Vigevano nella quale lavora il contabile Walter Vismara. Nella sua routine niente sembra smuovere il trentenne protagonista, tranne la chiusura improvvisa della ditta. Questo fatto lo catapulta nella caotica Milano dove, tra lavoro, vita frenetica e amore dovrà ritagliarsi un angolo per quel “terribile” gioco del pallone. Il capo, tifoso di calcio, prevede che ogni settimana i dipendenti giocano una partita che vede schierati, su fronti opposti, scapoli e sposati. Walter Vismara, non conoscendo e non apprezzando il gioco del calcio, si candida come portiere, ma si trova presto costretto ad apprendere più del necessario per evitare prese in giro da parte dei colleghi.

In un’atmosfera che richiama gli anni ’60, grazie a un’incredibile dovizia di particolari, sia per quanto riguarda gli ambienti che gli abiti, “Zamora” si incastra alla perfezione nella realtà contemporanea, nella quale il calcio è ormai lo sport principale e uno degli argomenti alla base delle conversazioni, nonché addirittura tabù. Ad avvalorare questo concetto il fatto, per esempio, che il nuovo capo del protagonista, interpretato da un divertente (e divertito) Giovanni Storti, incentri il suo metodo di lavoro, le sue idee e le sue proposte sempre intorno al calcio. Ne è una dimostrazione lo studio, addobbato come un fan club, ma, allo stesso modo, anche la segretaria, costretta a ripetere a memoria la formazione della squadra del cuore del cavaliere a ogni occasione. E naturalmente Vismara non può fare altro che assecondarlo, sia nella “fede” calcistica, sia nell’accettare di far parte di una delle due squadre.

A proposito dell’atmosfera sopra citata, in realtà si può parlare di una fotografia calda, a tal punto che sarebbe più corretto parlare di colori tenui che richiamano l’idea del ricordo, come una sorta di nostalgia piuttosto che una veridicità autentica. Una commedia che, seppur non in grado di emergere prepotentemente dal calderone del genere, può dire la sua, attraverso escamotage interessanti. Tra questi, sicuramente il fatto di utilizzare un protagonista completamente estraneo alla realtà calcistica che, così facendo, permette di non escludere nessuno dalla visione del film.

L’empatia che si crea con lui diventa, quindi, superiore perché non c’è un tifo al quale aggregarsi e non c’è, quindi, nemmeno una parte da prendere a discapito di un’altra.

Inoltre, in questo modo, il personaggio di Walter Vismara diventa la metafora perfetta per raccontare il boom economico degli anni ’60 attraverso la provincia. Nonostante venga catapultato nella città-metropoli di Milano, le sue “origini” sono provinciali; non è abituato al frastuono, al ritmo, ai tempi del capoluogo. E lo testimoniano tutta una serie di dettagli, dalle sue reazioni con i colleghi (e con la controparte femminile) al suo studio, talmente grande quanto semplice, da risultare spoglio e impersonale. Uno spazio che si contrappone a quelli sempre ricchi di persone a casa, durante la visione del celebre “Rischiatutto” nel quale Vismara si cimenta quotidianamente indovinando ogni singola risposta.

A fare da contraltare al personaggio interpretato da Alberto Paradossi c’è poi quello dello stesso Neri Marcorè che presta il volto a Giorgio Cavazzoni, ex portiere con lo scopo di mentore e guida per un giovane alla scoperta di sé e della propria vita. Perché nonostante tutto e nonostante l’impianto comico “Zamora” è anche un film di formazione.


Veronica Ranocchi

mercoledì, aprile 17, 2024

TATAMI

Tatami – Una donna in lotta per la libertà

di Guy Nattiv, Zar Amir Ebrahimi

con Zar Amir Ebrahimi, Arienne Mandi, Jaime Ray Newman

Georgia, USA, 2023

genere: drammatico

durata: 105’

Attuale, autentico e “crudo”. “Tatami”, che segna la prima collaborazione tra un regista israeliano e una regista (anche attrice) iraniana, è talmente credibile da risultare una storia vera.

Nonostante sia il judo la base intorno alla quale far ruotare il film, in realtà “Tatami” si serve dello sport come escamotage per trattare questioni molto più delicate, dalla politica alle relazioni (inter)personali, passando per il ruolo della donna e l’emancipazione, tanto per citarne alcune.

La judoka iraniana Leila Hosseini (Arienne Mandi) è la capitana della squadra di judo, nonché l’atleta più promettente pronta a far valere la propria bravura sul tatami ai campionati mondiali del 2019. Insieme alla sua allenatrice Maryam (interpretata dalla stessa regista del film, Zar Amir Ebrahimi) e al resto delle atlete, si prepara all’inizio delle gare. Dopo un breve saluto a una rivale israeliana, si appresta a essere pesata per poter essere inserita nella categoria corrispondente al proprio peso.

Inizia, quindi, la sua scalata verso la medaglia. Tra un incontro e l’altro contatta il marito che, con il figlio, si è riunito a casa di alcuni amici per seguire in televisione i mondiali e incitare la moglie. Tutto sembra procedere per il meglio fino all’intervento del governo iraniano che, contattando direttamente l’allenatrice, chiede esplicitamente il ritiro di Leila Hosseini dalla gara a causa del rischio di poter incontrare l’atleta israeliana in un’ipotetica finale. Ma Leila è determinata e decisa a far valere il proprio orgoglio.

Circoscrivere il film al solo genere sportivo significa limitarlo e tarpargli quelle ali che gli hanno permesso di emergere fin dalla sua presentazione, in sordina, a Venezia.

Un film di rivalsa e orgoglio al femminile che è la dimostrazione pratica di cosa significa non arrendersi mai e battersi per i propri ideali e principi, a costo di rischiare la propria vita, la propria incolumità e quella di chiunque altro.

Perché Leila non ha intenzione di fermarsi di fronte a niente e nessuno, il suo coraggio è talmente forte da riuscire a mettere al tappeto qualsiasi avversario, sia esso fisico, sul tatami, sia esso astratto, nella sua terra natia.

È consapevole di ciò a cui andrà incontro agendo in questo modo, ma ciò non le impedisce di continuare a lottare e combattere con le unghie e con i denti per raggiungere un obiettivo che, a ogni passo, sembra sempre più vicino e raggiungibile. Non si tratta di vincere la medaglia d’oro, ma di dimostrare il proprio valore.

Un tatami che è molto più di un semplice ring nel quale disputare una gara sportiva. Un tatami che rappresenta un intero mondo, dal quale Leila vuole fuggire, ma al quale è comunque legata e affezionata. Un mondo che positivamente è incarnato dal marito, costantemente al suo fianco e dalla sua parte, pronto a spronarla e a smuovere mari e monti pur di vederla felice, e dal figlio piccolo, ma anche un mondo negativamente rappresentato da queste entità “misteriose”, come le autorità che comunicano tramite telefono o i fan apparenti, usati come escamotage per arrivare a lei.

E infine come non citare l’uso incredibile di un bianco e nero che si trasforma in una metafora fortissima che fa da sfondo, ma al tempo stesso è protagonista di questa vicenda dall’impatto devastante.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 23, 2024

ROMEO È GIULIETTA

Romeo è Giulietta

di Giovanni Veronesi

con Pilar Fogliati, Sergio Castellitto, Maurizio Lombardi

Italia, 2024

genere: commedia

durata: 112’

Un’ottima base di partenza e un sodalizio sempre più affermato quello tra Giovanni Veronesi e Pilar Fogliati che non è più solo un “caso”, ma una collaborazione vincente e riuscita.

A dimostrarlo, per l’ennesima volta, è il film “Romeo è Giulietta”, una commedia che si distacca da quelle che hanno consacrato l’autore toscano e che cerca di affacciarsi nel non semplice mondo del dramma (contemporaneo).

“Romeo è Giulietta” è il tentativo di mettere in scena la celebre opera di Shakespeare da parte dell’acclamato regista Landi Porrini (un Sergio Castellitto in stato di grazia). A mettergli i bastoni tra le ruote c’è però Vittoria (l’ormai lanciata e affermata Pilar Fogliati), aspirante attrice (ostacolata da un’accusa di plagio mossale in passato) che, con il fidanzato, anch’egli alla ricerca di un ruolo nello spettacolo, si dimostrerà una vera e propria spina nel fianco del regista tanto acclamato quanto incapace di vedere oltre il suo naso.

Una storia che sa di moderno o che almeno tenta di far respirare una ventata di freschezza al pubblico, partendo da basi che ricalcano l’attualità, strizzando l’occhio al politicamente corretto, all’accettazione e alla differenza di genere.

Le premesse ci sono tutte e la base di partenza è innovativa a tal punto da poter permettere al regista e agli attori di giocare con qualcosa che rappresenta la classicità per eccellenza.

Quando si pensa a Shakespeare, e a “Romeo e Giulietta” in particolare, si pensa inevitabilmente a qualcosa di “tradizionale”, ma anche di statico e intoccabile. Veronesi, invece, con la sua commedia ci dimostra il contrario; ci dimostra che si può giocare, scherzare e plasmare anche un’opera classica come questa se si toccano gli elementi (e le corde) giusti. Si comprendono le scelte e le motivazioni che portano i personaggi ad agire in quel determinato modo.

Risulta difficile empatizzare con la follia del regista interpretato da Castellitto, ma è semplice capire la sua voglia di dimostrare al mondo che, nonostante tutto e nonostante tutti, è ancora in grado di trasmettere emozioni nuove, seppur attraverso “materiale più datato”.

Se, quindi, il personaggio di Sergio Castellitto, anche fin troppo sopra le righe, contribuisce sicuramente alla buona riuscita del film, insieme a una sempre più affermata (e poliedrica) Pilar Fogliati, ci sono anche elementi che fanno da contraltare.

L’aver calcato la mano su tutto ciò che contribuisce a rendere la pellicola “politicamente corretta” se da una parte può strizzare l’occhio positivamente a tutti coloro che ci vedono un’apertura e lo considerano come un ulteriore passo avanti, dall’altra sembra “stereotipizzare” fin troppo il tutto, tanto da rendere quasi surreale l’incontro tra tutti questi personaggi e questi elementi.

L’elogio al teatro e il porlo al centro della scena (anche con l’intervento, seppur breve, di una “nonna” Margherita Buy letale) è indubbiamente un punto a favore del regista pratese che, così facendo, dimostra anche una maturazione dietro la macchina da presa. Ma questo basta per far decollare davvero una commedia come questa? Forse si sarebbe potuto osare (e sviluppare) di più determinati aspetti. Come le divertenti incursioni di Geppi Cucciari nei panni di una truccatrice in cerca di una rivalsa, o anche quelle delle due metà dei protagonisti: da una parte Maurizio Lombardi, che interpreta un riuscito Lori, storico compagno del regista Landi Porrini, e dall’altra Domenico Diele, fidanzato di Vittoria, con il sogno da sempre di interpretare Romeo. Tutti personaggi destinati a sfumare, inglobati dai protagonisti e dal cercare di andare oltre una barriera che, però, si fatica a scavalcare subito completamente.

La chiave c’è, adesso va solo inserita correttamente nella toppa e fatta girare, così come gira il misterioso Otto Novembre.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 16, 2024

DIECI MINUTI

Dieci minuti

di Maria Sole Tognazzi

con Barbara Ronchi, Margherita Buy, Fotinì Peluso,

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 122’

In uno dei momenti più critici del suo disagio esistenziale Bianca (Barbara Ronchi) si sente rivolgere una frase che le suona come una rivelazione. All’apparenza banale e un po' scontata la presa di coscienza che la solitudine non appartenga solo a lei, ma che sia qualcosa che accomuna l’intero genere umano non è solo un punto di svolta narrativo del film e, in particolare, del percorso di consapevolezza intrapreso dalla protagonista per reagire alla paura di vivere, ma riguarda anche una delle caratteristiche più lampanti del nuovo lungometraggio di Maria Sole Tognazzi, quella di parlare di un sentimento umano che tutti prima o poi ci siamo trovati a sperimentare.

Che poi “Dieci minuti” decida di declinarne le conseguenze prendendo in esame per la quasi totalità figure femminili non esenta la controparte da speciale immunità se è vero che pur addebitando il tracollo della protagonista all’abbandono da parte del proprio partner, il film evita l’alzata di scudi contro la categoria maschile e dunque la litania di cliché e stereotipi a cui ci ha abituato il cinema del #MeToo, presentandoci un quadro piuttosto variegato di torti e di ragioni equamente distribuiti tra le parti in causa.

Ma c’è di più perché prendendo in prestito il metodo curativo della dottoressa Brabanti (Margherita Buy), la psicoterapeuta da cui Bianca è in cura, “Dieci minuti” evita di piangersi troppo addosso preferendo l’azione alla commiserazione. Così succede che, pur non lesinando la dose di dolore e di apatia che accompagna le giornate della protagonista, mostrandoci anche in flashback le varie fasi del suo calvario, a fare da motore alla storia è la pars construens della vicenda, quella della politica dei piccoli passi in cui la “paziente” in prima persona - e senza scuse - si fa garante della propria guarigione.

Nella sceneggiatura scritta dalla Tognazzi assieme a Francesca Archibugi e ispirata al libro - “Per dieci minuti” - di Chiara Gamberale, la ricetta salvifica assume le forme a cui alludono i dieci minuti del titolo, con la serie di esperienze “iniziatiche”, brevi ma intense, fatte apposta per abituare Bianca a uscire fuori dalla propria confort zone, permettendole di guardare in faccia i fantasmi che le condizionano la vita.

Seguendo gli alti e bassi del suo personaggio, “Dieci minuti” si divide tra momenti di intensità drammatica, in cui afflizione e sfiducia la fanno da padrone, ad altri, quelli dedicati alla terapia, dove l’improbabilità delle situazioni scelte dalla donna fanno prevalere una dimensione più lieve e persino divertente: con Barbara Ronchi bravissima nel fare tesoro del suo eclettismo cinematografico (prova ne sia nel 2023 il successo ottenuto con due film diversissimi come “Settembre” di Giulia Steigerwalt e “Rapito” di Marco Bellocchio) e dunque a padroneggiare al meglio le variazioni della partitura drammaturgica, duettando con un' interprete di gran classe come Margherita Buy, perfetta in un ruolo in controtendenza rispetto a quelli che l’anno resa famosa, e con Fotinì Peluso (“Cosa sarà”, “Tutto chiede salvezza”), qui nel ruolo della sorella di Bianca, oramai pronta per un ruolo da protagonista.

Fedele alla matrice intimista del suo cinema, Maria Sole Tognazzi ancora una volta mette in scena una metamorfosi femminile tormentata e dolorosa in cui la rinuncia alle certezze del quotidiano diventano il modo per abbracciare la libertà di una nuova vita. “Dieci minuti” non fa deroghe, suggellando la rinascita personale della sua protagonista attraverso una sequenza - quella della panoramica conclusiva che ci mostra Bianca tuffarsi nel mare e prendere il largo - in cui l’eccezionalità della ripresa (rispetto alla scelta di utilizzare campi limitati in coerenza con le chiusure psicologiche della protagonista) fa il paio con la valenza metaforica della scena.

Nel mettersi a disposizione della storia e dei suoi personaggi la Tognazzi si rende artefice di una regia invisibile che produce senso lavorando sulla composizione interna dell’immagine, sui colori e sulla fotografia più che sui movimenti di macchina. Così è il rosa della casa bunker, sintesi efficace del mondo ideale in cui Bianca si è inconsapevolmente reclusa; così è la dominante blu degli interni, nel momento di massima disperazione ripresi come fossero una sorta di obitorio. La sensazione generale è però quella di una direzione che sembra farsi carico della condizione della protagonista, e dunque che si accontenta di portare a casa il risultato senza rischiare nulla. A differenza di Bianca, “Dieci minuti” non riesce a scrollarsi di dosso una prevedibilità che non lo rende terapeutico per l’esperienza dello spettatore.


Carlo Cerofolini

giovedì, febbraio 15, 2024

PAST LIVES

Past Lives

di Celine Song

con Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro

USA, 2023

genere: drammatico, sentimentale

durata: 106’

Sembra proprio sia ancora possibile raccontare grandi storie con pochi elementi e con grande semplicità. Perché è questa la vera e forse più importante lezione da apprendere dopo la visione di “Past Lives” di Celine Song.

L’esordio alla regia di questa regista coreana, che ormai vive in America, è forse il film che più di tutti elogia la semplicità, la quotidianità e la normalità (sulla scia del recente “Perfect Days”).

La protagonista della vicenda è Nora (il cui nome di battesimo coreano è Na Young) che all’età di 12 anni deve trasferirsi insieme alla famiglia (la madre scrittrice, il padre regista e la sorellina) dalla Corea all’America. Nel paese natio deve lasciare, quindi, la sua vecchia vita e soprattutto il suo primo amore (Hae Sung) con il quale, però, riesce a mettersi nuovamente in contatto dall’America 12 anni dopo, salvo poi bloccare le comunicazioni perché troppo distanti e probabilmente senza futuro. Nel giro di poco tempo in una residenza per artisti (a New York Nora è una sceneggiatrice) la protagonista incontra Arthur del quale si innamora. I due si sposano, ma cosa succederà quando dopo altri 12 anni Nora incontrerà nuovamente sulla sua strada il suo primo amore?

Un film nel quale, come “spiegato” nel titolo, si intersecano vite passate (o presunte tali) con un presente e un ipotetico futuro, andando a scavare nelle profondità dell’animo di ognuno di noi.

Quante volte è capitato di dire o di pensare “e se fosse andata diversamente?”. Ecco, “Past Lives” mette sullo schermo la risposta (e le tante ulteriori domande che ne derivano) a questo quesito quasi impossibile.

Ma a colpire, al di là della visione alla “Sliding Doors”, sono la semplicità e la delicatezza, a volte anche crudele, con le quali Celine Song mette in scena la vita di Nora. Continuamente di fronte a bivi, dualismi e contrasti, Nora deve sempre cercare la soluzione che non è quasi mai quella semplice o quella che vuole/vorrebbe.

A incarnare, anche visivamente, queste scelte obbligate ci pensa anche la messa in scena sempre attenta a creare una sorta di contrapposizione. Dagli elementi fisici, che sembrano frapporsi tra i protagonisti, alle dinamiche umane. Perché se le scale rappresentano metaforicamente la scalata sociale (e non solo) compiuta da Nora, sono le sue affermazioni e il suo modo (semplice) di vedere la vita, le persone e i rapporti umani a decretarne il successo.

Celine Song parla di assenza di supereroi in una storia semplice che elogia la semplicità attraverso personaggi che potrebbero essere chiunque. Ma forse è proprio questa la magia di una storia comunque unica perché “personale”.

Bivi e scale sono solo la rappresentazione fisica delle difficoltà alle quali andrà incontro Nora nella propria vita. Difficoltà che si iniziano a presentare fin dall’infanzia e che andranno ad aumentare con l’andare avanti del tempo, messe in evidenza dalla saggia decisione di ricorrere non soltanto a una barriera linguistica, ma anche a una barriera reale e ancora più difficile da superare: la distanza. Una distanza che, grazie al progresso e alla modernità, può essere scavalcata tramite alcuni mezzi, ma solo in parte. Il filtro dello schermo, infatti, è solo un esempio. Un esempio concretizzato poi dalle differenze linguistiche e di usi e costumi. E non è un caso che la storia inizi da una situazione ben precisa che viene scardinata, mostrata ed elaborata tornando indietro di diversi anni. La primissima scena mette in evidenza tutte queste differenze e lo fa senza dare spiegazioni. Le voci fuori campo commentano quello che vedono come farebbe qualsiasi spettatore. Le differenze sono tante e fin troppo evidenti e l’obiettivo diventa quindi quello di scardinarle. Cos’è che è “troppo coreano” come Nora tenta di spiegare al marito? E cosa non lo è? Come ci si avvicina (o allontana) da una cultura, da un modo di vivere e di essere? Lo si può fare davvero?

Alla fine la lingua diventa solo un pretesto per avvicinarsi o allontanarsi e, nel caso di “Past Lives”, per far (ri)vivere a Nora qualcosa che forse, nonostante tutto, non potrà più vivere.

Un dualismo continuo e perenne che si evolve e si intreccia attraverso la figura di Nora che cerca, per quanto possibile, di far avvicinare due persone, due culture, due lingue, due mondi diversi ricorrendo comunque, anche se involontariamente, a situazioni diverse e contrapposte. Cosa è giusto e cosa sbagliato? Per chi fare il tifo? Non ci sono schieramenti in “Past Lives”, ma solo grande consapevolezza. Di ognuno di noi e del mondo che ci circonda.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 02, 2024

THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA

The Holdovers – Lezioni di vita

di Alexander Payne

con Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da’Vine Joy Randolph

USA, 2023

genere: commedia, drammatico

durata: 133’

Una piacevole carezza in mezzo a una marea di prodotti che sembrano ormai sempre più standardizzati o creati solo per sorprendere con effetti speciali e colpi di scena uno spettatore che ormai ha visto tutto. Questo è quello che rappresenta il nuovo film di Alexander Payne. A differenza della “massa” proposta sul grande (e piccolo) schermo, “The holdovers” è in grado di rilassare il pubblico attraverso la sua semplicità e dolcezza, senza esagerare o strafare in niente.

Uscito rigenerato dalla visione, lo spettatore avrà anche appreso alcune importanti “lezioni di vita”, come recita il sottotitolo della versione italiana, anche grazie alle più che convincenti interpretazioni degli attori, da Paul Giamatti e Dominic Sessa passando anche per Da’Vine Joy Randolph.

Tutto inizia nel più classico dei modi: siamo nel New England del 1970, precisamente alla Barton Academy, un collegio maschile. Durante le vacanze di Natale quattro studenti, ognuno per ragioni diverse, non fanno rientro a casa dalle proprie famiglie e, per sorvegliarli, viene scelto Paul Hunham, impopolare insegnante di lettere classiche con il quale né studenti né colleghi vogliono avere a che fare. A farci i conti da vicino, nonostante le premesse, sarà, però, soltanto Angus Tully, unico studente costretto a rimanere bloccato a scuola causa irreperibilità della madre che avrebbe potuto acconsentire a mandarlo in vacanza con la famiglia di uno degli altri tre studenti. Per causa di forza maggiore, quindi, Angus e Paul si ritroveranno costretti a “convivere” per cercare di passare al meglio il Natale e i giorni di festa.

Un film di Natale un po’ anomalo. Un film sull’adolescenza e sulla presa di coscienza di sé altrettanto fuori dai comuni standard. Insomma “The holdovers” è tutto tranne che semplice e banale pur apparendo come tale. Ebbene sì, perché la storia è “classica”, pensiamo di averla già vista con il memorabile “L’attimo fuggente”, tanto per citarne uno, ma bisogna andare oltre le apparenze e arrivare a capire che in questi tre personaggi così diversi tra loro c’è molto da cui trarre spunto per una riflessione.

Senza cadere in pietismi e sentimentalismi Alexander Payne riesce a dare voce a quelli che normalmente sono gli “emarginati”, innalzandoli a un ruolo di prestigio e permettendo loro di essere portatori di valori e tematiche attuali nonostante la storia sia ambientata nel 1970. La guerra che si mescola al lutto e all’elaborazione di una perdita importante sono solo la base di partenza per un film che arriva a toccare le corde dell’anima trattando un tema come la depressione, il tutto condito dalle sane e spesso ironiche divergenze generazionali incarnate perfettamente dai due protagonisti sovente redarguiti, per questo, dalla cuoca Mary (Da’Vine Joy Randolph) sui quali il regista gioca alimentandone le caratteristiche: lo studio della letteratura antica per l’insegnante è l’emblema di una classicità, di una staticità e di un voler rimanere ancorati a un passato destinato invece a evolversi grazie all’intraprendenza e, a tratti, strafottenza tipica dei più giovani.

Un contrasto e una dicotomia resi alla perfezione anche dall’ambiente circostante, dal suo utilizzo e dalla sua trasformazione. Se all’inizio siamo inchiodati e “braccati”, come Angus, all’interno di uno spazio chiuso e angusto, appunto, dal quale non è possibile evadere neanche con la mente, col passare del tempo, imparando a conoscere i personaggi e la loro indole, riusciamo a fuggire e lo facciamo, prima, con la breve visita all’ospedale e, dopo, con il viaggio a Boston.

Spazio e tempo si dilatano in questo modo come l’animo e il carattere dei due personaggi così diversi eppure così “funzionanti” (e funzionali) insieme.

Continuamente e perfettamente in bilico tra dramma e commedia in un modo in cui ad Alexander Payne riesce particolarmente bene “The holdovers” consegna una serie di lezioni di vita. Non solo ai due protagonisti, in grado adesso di guardare sé stessi e gli altri con occhi diversi, ma anche e soprattutto a noi spettatori.


Veronica Ranocchi

giovedì, febbraio 01, 2024

PARE PARECCHIO PARIGI

Pare parecchio Parigi

di Leonardo Pieraccioni

con Leonardo Pieraccioni, Chiara Francini, Giulia Bevilacqua

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 96’

Una ripetizione o un’allitterazione? Con questa domanda può iniziare l’approccio al nuovo film di (e con) Leonardo Pieraccioni. Già da questo “inciampo”, voluto, nel titolo si intuisce la direzione del film. “Pare parecchio Parigi”, così come la storia vera dalla quale prende spunto, nonostante le buone intenzioni e delle trovate sempre efficaci, ha il difetto di girare su sé stesso senza uscire da dei veri e reali confini, siano essi quelli del territorio, quelli del gergo o quelli delle battute toscane.

Una storia vera ai limiti dell’incredibile quella dalla quale parte il regista e attore fiorentino. Gli ingredienti sono semplici: un padre malato (e quasi cieco) e tre fratelli, Bernardo, Giovanna e Ivana (Pieraccioni, Chiara Francini e Giulia Bevilacqua), che si sono persi di vista e che non vogliono avere a che fare con gli ultimi giorni di vita del genitore. Messi insieme e mescolati ben bene rappresentano la classica base di partenza per una storia che, in questo caso, si trasforma in un qualcosa a metà strada tra commedia e dramma, a differenza delle precedenti opere dello stesso Pieraccioni, intento solitamente (ed esclusivamente) a divertire.

Se il punto di partenza, come detto, risulta fin da subito efficace non lo è altrettanto lo sviluppo che rimane fin troppo in superficie, salvo poi arrivare all’ovvia riconciliazione che mette in mezzo, tra una gag e l’altra, e alcuni omaggi più o meno voluti, anche tematiche attuali (dal toyboy all’accettazione di sé e degli altri, tanto per citarne due).

Ma la solita verve comica del regista e attore qui tenta di fare un passo più lungo della gamba tanto da rimanere, per certi versi, ancorata al passato. Non a caso, infatti, si possono individuare elementi caratterizzanti i titoli che avevano e che hanno consacrato l’autore toscano: dalla scelta di alcuni interpreti ricorrenti, anche per brevi o brevissime apparizioni, al ruolo, sempre centrale, della famiglia, ogni volta sviscerato in maniera diversa, di pari passo con l’evoluzione umana del regista stesso. Ma non bastano per rendere “Pare parecchio Parigi” una commedia allo stesso livello delle precedenti. Forse è vero che si nota una sorta di punto di svolta, almeno negli intenti, da parte del regista, ma sono intenti opachi e appannati che, con l’andare avanti dei chilometri, si fanno sempre più pesanti e privi di una via d’uscita all’altezza delle premesse.

Ed è un peccato perché è indubbiamente un’ottima base quella di giocare su un viaggio immaginario contornato dalle fugaci ma divertenti incursioni di alcune comparse appositamente istruite da una delle figlie. Ma è un viaggio che sembra girare intorno e girare su sé stesso al pari del camper che ospita la strampalata e ritrovata famiglia. Da Nino Frassica, in un ruolo alternativo di padre burbero forse non troppo nelle sue corde, a un’esplosiva Chiara Francini, probabilmente la figura che emerge più di tutte, tra battute già memorabili e una cadenza unica. Passando per una Giulia Bevilacqua alla quale spetta il compito di riportare serietà e “rigore” al quartetto e alla storia in generale e per un Massimo Ceccherini nel ruolo del cattivo e maligno per eccellenza accompagnato da una bravissima Gianna Giachetti nel ruolo della madre, purtroppo entrambi troppo relegati e marginali.

Il tutto, come nella migliore delle tradizioni dei film di Pieraccioni, è contornato da una parentesi che serve al regista e attore per introdurre e contestualizzare, seppur in maniera alternativa, la sua tanto amata e usata voce narrante. Una voce narrante che, però, non riesce a destare troppo lo spettatore incastrato in un camper, o meglio in un maneggio, dal quale risulta difficile evadere per vedere Parigi.


Veronica Ranocchi 

domenica, gennaio 14, 2024

PERFECT DAYS

Perfect days

di Wim Wenders

con Kōji Yakusho, Tokio Emoto

Giappone, Germania, 2023

genere: drammatico

durata: 123’

Tutti abbiamo un giorno preferito. Un momento della giornata, della settimana, del mese che prediligiamo e che riteniamo, almeno ai nostri occhi, “perfetto”. Ecco, per Hirayama questo accade ogni giorno.

Infatti i “Perfect Days”, presentati da Wim Wenders, prima a Cannes e poi nelle sale italiane non altro che lo scovare la novità e l’entusiasmo anche nella più classica e monotona routine.

“Perfect days” avrebbe potuto essere un documentario, ma la scelta di renderlo un film di finzione incredibilmente vero e vicino alla realtà di chiunque conferisce al titolo un grande merito: quello di aver reso straordinario anche il più semplice, quotidiano e umile gesto.

“Quanto vorrei che tutto restasse com’è” è quello che dice la ristoratrice di uno dei luoghi abitualmente frequentati da Hirayama al termine del suo lavoro. Ed è anche quello che il protagonista sembra voler perseguire ogni giorno ripetendo incessantemente le stesse cose. Ma si tratta di una routine che non è fine a sé stessa, anzi. Hirayama è consapevole di ripetere continuamente le stesse azioni, ma sa anche che questa apparente monotonia non potrà durare per sempre perché tutto è destinato a cambiare.

E ne sono una chiara dimostrazione gli “imprevisti” che gli accadono nonostante il ripetersi di gesti e azioni. Dal collega strampalato alla nipote, passando addirittura per una strana e originale comunicazione con qualche sconosciuto, probabilmente silenzioso come lui. Perché se c’è un elemento che caratterizza il protagonista (e il film) è proprio il silenzio. Sono poche le parole che pronuncia e mai superflue. È come se fosse stato estrapolato da un’altra epoca e si fosse ritrovato a vivere nella Tokyo del 2023 con le abitudini che, però, hanno caratterizzato probabilmente la sua giovinezza e la sua infanzia.

Ogni mattina si alza presto, ripiega minuziosamente il proprio letto, si prende cura delle proprie piante, esce di casa, prende un caffè e sale sul suo furgoncino pronto per una nuova giornata di lavoro, non prima di aver scelto accuratamente la giusta musicassetta da ascoltare durante il tragitto. E poi passa in rassegna tutti i bagni pubblici di Tokyo per pulirli, come la scritta sulla sua tuta “The Tokyo Toilet” aveva anticipato all’inizio del film.

Una routine che, seppur in silenzio da solo, non è sinonimo di solitudine, ma anzi dimostra proprio il contrario. “Perfect days” invita a guardare il mondo da un’altra prospettiva, accogliendo la novità, qualunque essa sia, sempre nel migliore dei modi, considerandola come qualcosa che può solo migliorare la situazione attuale. E infatti Hirayama accoglie le piccole novità che la sua routine gli presenta involontariamente in maniera positiva. Dall’arrivo della nipote che, rompendo gli schemi e gli equilibri, gli impone non soltanto un dialogo, ma anche una riflessione sulla vita e dei consigli al banale tris che trova scritto in un foglio solo apparentemente dimenticato in uno dei tanti bagni.

Un elemento su tutti, però, in grado di distogliere l’attenzione dello spettatore e dello stesso Hirayama da quella che può sembrare una continua monotonia è la fotografia. Perché nella vita di quel lavoratore silenzioso non ci sono solo le piante di cui si prende cura e la lettura ogni sera di un volume diverso. C’è anche l’osservare la realtà che lo circonda, anche quella più silenziosa, come le fronde degli alberi e le foglie che si muovono al vento e che nascondo a tratti la luce del sole. Quelle foglie che lui ama osservare e immortalare perché emblema perfetto della sua vita terrena. E non è un caso che l’immagine si blocchi proprio nell’istante dello scatto, come un monito, come a ricordare il valore di un momento, di un giorno davvero perfetto. 


Veronica Ranocchi